La montagna è da evitare.
Dovrebbero scriverlo dappertutto. Sui muri dei palazzi governativi, sopra certe scrivanie lucide in noce nelle stanze dei bottoni, sui fogli divulgativi dei regimi militari che ti consigliano cosa fare, dove andare, quale strada prendere per non morire. Su quei fogli, quando ti dicono di andar via da casa perché casa tua non è sicura, dovrebbero dirlo: la montagna è da evitare.
Sulle leggi monolitiche delle dittature di questo e altri mondi. In chiesa. Dentro e fuori i confessionali. A chiare lettere senza dubitare: la montagna è da evitare.
Boschi, valli, sotto gli alberi e sopra i prati. Guglie di roccia strapiombanti, creste e grotte carsiche Su quei sentieri per nessun dove, perché ogni vetta è un po’ “non luogo”, la montagna è da evitare. Può dare effetti collaterali. Tanto indesiderati, da renderti indesiderabile perché agli ordini ti fa recalcitrante. Allergico a imposizioni e parole d’ordine da ripetere ossequioso.
Chi conosce la montagna, chi la vive ogni giorno fino a contemplarne gli estremi del giorno e della notte non può essere suddito né soprattutto re.
La montagna di padroni non ne ha.
La montagna di padroni non ne vuole.
Fosse anche tuo l’intero bosco che d’autunno si colora e di inverno si fa bianco, ma della montagna non puoi essere padrone.
Nell’andirivieni delle stagioni, nella piena libertà delle cose che vanno e decadono per processi gravitazionali come campanili di dolomia in equilibrio sul filo di ere geologiche che sottostanno solo a vita e quindi a morte, montagne e boschi non han padroni.
Né sudditi né re, odore sano di libertà.
Un odore che ti si appiccica addosso.
Non ordini precisi di lavoro.