Di Francesco Cosentini
L’Africa suscita sempre forti emozioni, positive o negative che siano.
Dai paesaggi mozzafiato agli animali della savane, dalle tradizioni millenarie alle crisi sanitarie, fino ai disastri ambientali e ai conflitti. Poi c’è un’Africa diversa, che sta “in mezzo”, lontana dai cliché e dagli stereotipi che propinano la maggior parte dei canali di informazione. Soffermarsi sulle immagini patinate da catalogo o sui sorrisi dei bambini è di certo confortante e coinvolgente, ma è altrettanto riduttivo.
Dire che in Africa tutti sono felici e sorridenti nonostante non abbiano niente scade nella retorica.
L’Africa non cambia le persone, come spesso ho sentito dire, piuttosto cambia chi ha la giusta sensibilità per farlo ed ha la capacità di confutare le proprie convinzioni e i propri pregiudizi.
Parlare di Africa è un azzardo, il grande reporter Ryzard Kapuscinski afferma:
“L’Africa è troppo grande per poterla descrivere. È un continente-pianta a sé stante, un cosmo vario e ricchissimo. È solo per semplificare e per pura comodità che lo chiamiamo Africa. A parte la sua denominazione geografica, in realtà l’Africa non esiste».”
La mia personale avventura africana nasce sui libri e sui documentari che guardavo da ragazzino e, senza dubbio, è da lì che ho iniziato a sognare l’Africa; lo dico senza il timore di risultare melenso.
Appena ho potuto sono partito per un breve periodo in Tanzania, ospite di una casa famiglia. Lì ho realizzato quanto fossero stati inutili tutti i buoni propositi di fare volontariato per “dare una mano”; ho capito invece l’importanza della condivisione e il piacere dell’accoglienza che la comunità mi ha dimostrato.
Sono tornato tramite il servizio civile all’estero e ho trascorso un anno in un centro orfani con 90 bambini: un’esperienza umana molto intensa. Poi, ho coordinato un progetto di microcredito e, ancora, un progetto di costruzione di un ospedale, in collaborazione con due associazioni e un missionario italiano. Ho imparato con l’esperienza che le decisioni devono scaturire dal dialogo in loco con la comunità locale, e non da una pianificazione a tavolino dall’Italia. Ho fatto parecchie riflessioni critiche sui meccanismi e le incongruenze della cooperazione internazionale classica; forse è da queste che ho iniziato a riflettere sul turismo come valida forma di cooperazione.
Il turismo come strumento per far conoscere un luogo in maniera consapevole, come reale opportunità per la comunità locale di sostenersi economicamente, ed esprimere il proprio potenziale e le proprie peculiarità.
Ho esplorato tanto e realizzato il sogno di un viaggio spensierato con la bicicletta in Tanzania e in Malawi. Un’esperienza radicale, profonda e impegnativa, dove ho vissuto per quattro mesi la quotidianità in maniera lenta ed entusiasmante.
Ho visitato altri Paesi africani, ma sono ritornato a più riprese in Tanzania, l’ultima volta per coronare il sogno del trekking nel parco nazionale del Kilimanjaro.
La cosa più importante che ho imparato dai miei anni africani?
Sicuramente aprirmi a un processo di crescita. Ho fatto tesoro di tutti i momenti, ho cercato un approccio quanto più possibile obiettivo e critico, sgombro dai pregiudizi. E’ facile amare una terra per le sue infinite bellezze, io ho imparato ad amarla perché ne ho assaporato, nel mio piccolo, anche i frutti più amari. Questo sentimento nudo e crudo è la cosa più preziosa del mio bagaglio ed è forse, per me, ciò che più si avvicina al mal d’Africa!